Recensione a cura di Valerio Calzolaio per Mangialibri
Roma. 61 a.C, consolato di Pisone e Corvino. La stella del giovane questore Flavio Callido aveva già brillato durante le campagne contro Mitridate e i pirati, nove anni di guerre al seguito e all’ombra del grande Pompeo, ora potrebbe brillare di luce propria. Lo va a trovare e si fa ricevere un ospite illustre, il princeps senatus Quinto Lutazio Catulo, sconfitto da Cesare nella corsa alla carica di pontefice, ancora potentissimo, ultrasettantenne capo degli ottimati (il partito conservatore) che ha in anticipo annunciato la candidatura al consolato per l’anno successivo. Gli chiede di indagare sugli omicidi cruenti di due illustri cittadini romani, con capitali e amicizie importanti, il senatore Rabirio e Marco Cornelio Crisogono, figlio del liberto di Silla, il secondo lasciato proprio quella mattina davanti alla porta della sua domus . Entrambi sono stati trovati morti con mutilazioni e scene che lasciano presagire dei sacrifici umani, l’indagine nasconde certo sottili giochi politici. Flavio Callido, magistrato ambizioso con addestramento militare, non può certo tirarsi indietro, spinto anche dal padre Spurio, aiutato dal segretario Tarquinio e dal littore Censo; inoltre la giovane Lutazia Domizia, capelli neri e fisico allenato, figlia adottiva di Catulo, nata schiava, sposa di un attempato militare in missione, legata pure alla forte gladiatrice e allenatrice Achillea di Smirne, s’intromette e vuole affiancare l’investigatore, lo accompagnerà (quasi) ovunque. Appare subito chiaro che non sono in perfetta sintonia, il fatto è che si aggiungono presto altre vittime, non casuali. I morti risultano personalità influenti e si conoscevano, gli efferati omicidi mostrano un medesimo progressivo rituale: a Rabirio è stato amputato il naso, a Crisogono le orecchie, ad Archelao i genitali, ad Autronio Peto. Di mezzo c’era o c’era stata una congiura, qualcosa sembra alludere a un feroce delitto del passato, non è facile capire di chi ci si può fidare e a cosa di terribile si va comunque incontro, occorre affidarsi a prestanza, furbizia e gladi…
L’esperto comunicatore Walter Astori ha consolidate passioni per la storia e la scrittura, nel giro di due mesi dell’estate 2018 ha pubblicato due avventure narrate in prima persona dal suo fresco protagonista, questa dell’Urbe è la prima. L’ispirazione è giunta da un fatto realmente avvenuto: la morte sacrificale violenta del tribuno della plebe Marco Mario Gratidiano (riformatore della moneta) durante le proscrizioni sillane. Nella vicenda s’intrecciano poi personaggi storicamente esistiti e figure totalmente inventate, pur se i riferimenti alla struttura della città, al contesto socio-ambientale, alle dinamiche politico-istituzionali sono minuziosamente precisi. Non a caso, a un certo punto e più volte, il questore chiama in causa Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), vanitoso e intrallazzato, prestigioso e ormai pingue. Lo va a trovare sulle vette del colle Palatino dove viveva nel terrore che tornasse a Roma per vendicarsi qualcuno sopravvissuto fra i congiurati di Catilina contro la Repubblica, circondato e scortato da un piccolo esercito anche fra le mura domestiche; poi gli chiede addirittura di testimoniare per certificare i fatti che sta ricostruendo. C’erano spietati assassini in giro per la città, legali e illegali. E tanti possibili brutti modi di morire, anche allora. Il romanzo è gradevole, l’intreccio accurato, lo stile lineare. L’autore talvolta spiega troppo con attenzione eccessiva per noi lettori. Vero è che il padre del protagonista ha ottime vigne e una magnifica produzione vitivinicola, un gran Falerio e un rosso che profuma di miele (vera remotissima origine del liquido odoroso).